Era tanto tempo che un libro non mi entrava dentro così. Crudo, forte, logorante. Descrizione di una realtà lontana che immaginiamo come fosse un fantasy di J.K. Rowling: Libia, Siria, Iraq. Eppure, lì vivono persone come noi. Solo, nate dalla parte “sbagliata” del mondo. Si tratta di fortuna. E noi siamo fortunati.
Mi sono sentito travolto. E ho ascoltato queste pagine parlare e raccontare storie che, spesso, la televisione non riesce a far vedere. O non vuole. È una questione di prospettiva: più stringi l’inquadratura, più il dettaglio sembra importante, più è insignificante. Perché elimina il contesto ed edulcora la vicenda, l’episodio, la testimonianza.
Sappiamo tutti che i conflitti portano sofferenza e odio. Sappiamo anche che in guerra non vince mai nessuno. Lo sapevo anch’io. Ed è un tema attualissimo. Eppure, leggere “Porti ciascuno la sua colpa” mi ha spalancato le porte di un mondo che non avevo osservato mai abbastanza da vicino. La guerra dopo la guerra. Condizioni di vita che qui, in occidente, sembrano inimmaginabili: povertà, mutilazioni, vendetta, giustizia, ideali. Nessuna distinzione tra vittime e carnefici. Perché la vittima diventa carnefice e il carnefice vittima. E poi dolore. Tanto, troppo dolore.
Ho comprato questo libro per un esame. Direi, per caso. Ma al caso non ci credo. Mi ha fatto piangere e pensare. Meglio, riflettere. Soffermare ancora di più su quanto nascere in un luogo o in un altro possa salvarti la vita. O distruggerla. E tu sei lì, impotente, a chiederti perché proprio a te ad aggrapparti alla religione o a trovare una ragione a qualcosa che ragione sembra non averne.
La verità è che abbiamo smesso di stupirci: della bellezza, della malvagità, della paura, di un sorriso, di una lacrima. Siamo abituati a qualcosa a cui non bisognerebbe mai abituarsi. La guerra è così: tutti colpevoli, tutti innocenti. Nessun colpevole, nessun innocente. Porti ciascuno la sua colpa. Perché, alla fine, siamo tutti tremendamente uguali.